OrgansaORGANSA Quello che stupisce soprattutto in “Organsa” di Mariangela Mianiti è il linguaggio, un impasto di italiano e dialetto della Bassa parmense che scolpisce i personaggi non in una materia morbida come il legno o la creta, ma nel granito o in una qualunque altra pietra dura, rendendoli indimenticabili. Chi scrive non ama i pastiche linguistici, che trova in genere arroganti ma, come ha commentato Luisa Muraro nel corso di un incontro tenutosi presso la Libreria delle Donne di Milano, questa “è una lingua che continua a stare in equilibrio nell’italiano”, e meglio non poteva essere detto. La scrittrice conferma di averci lavorato parecchio, perché ogni frase poteva essere formulata “in cinque o sei modi diversi”, con cioè una diversa mistura di italiano e dialetto, ma “qui ho trovato la musica.” Il risultato è qualcosa che, con un minimo di difficoltà, può essere capito anche a Napoli o a Palermo. È un esito che raggiunge chi sa scrivere davvero, come il siciliano di Silvana Grasso, comprensibile anche da noi. Allo stesso modo per Mianiti l’idioletto non è un vezzo, ma un modo per dare credibilità e consistenza ai personaggi. La storia raccontata è una di ordinaria durezza e ingiustizia delle nostre campagne tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Una famiglia contadina, una figlia che ha studiato da sarta, con un particolare talento e creatività nella confezione degli abiti, costretta a servire i genitori-padroni che hanno rilevato un’osteria e la obbligano a una vita che non vuole, tenendo stretti i cordoni della borsa e accentrando tutto nelle proprie mani. E poco importa che la donna sia sposata, perché il marito, a cui lei pure vuole bene, è costretto anche lui nella gabbia dell’ignoranza, senza i mezzi per ribellarsi né allo sfruttamento sul lavoro né ai suoceri. Chi ha sensi non intorpiditi e occhi spalancati è la bambina Aurelia, dal cui punto di vista la storia viene narrata e attraverso cui avviene il riscatto dei genitori che la fanno studiare, al pari degli altri figli, perché si rendono conto che l’unica fuoriuscita dalla miseria, anche umana, è l’istruzione. È malvagia la nonna, matriarca formidabile e implacabile, che governa la famiglia con pugno di ferro, taglia con le forbici la testa alle rane, castra galli e scuoia conigli? È malvagio il nonno parassita che tiene per sé tutto quel che c’è di meglio e lesina alla figlia? Sì, sono malvagi, ma hanno ereditato la spietatezza contadina, la concentrazione sul sé che sola poteva garantire la sopravvivenza in tempi in cui la minima pecca o cedimento significavano morte certa. Hanno ereditato nei geni un attaccamento ai beni e un’avidità che, se non era di tutti i contadini, certo ha a che fare con la fatica del tenersi in vita. La storia raccontata è quella del passaggio da una società rurale a una industriale, che vede a poco a poco le persone dotarsi di automobile, televisione, elettrodomestici, ma anche abbattere platani e cementificare prati per costruirvi parcheggi, rotonde e tangenziali. Romanzo importante per tutti, è imprescindibile per chi vive dalle nostre parti, che ci ritroverà, resi al centimetro, gli ambienti, le atmosfere, le abitudini, la parlata, i caratteri che hanno popolato la nostra pianura dagli anni ’50-’60 a oggi. E ancora il modo di vivere dei paesi, i perdenti, i diversi che si suicidano o finiscono per morire, la voglia di fuga il più lontano possibile, gli interni prima contadini poi piccolo-borghese, la nebbia e i fossi. Tutt’altro che una storia gotica come, per dire, il pur bellissimo “La valle delle donne lupo” di Laura Pariani, il libro è intriso di umorismo e si sta alzati la notte per finire di leggerlo. Francesca Avanzini Organsa, il verri edizioni, pp. 269, euro 16

 

Quello che stupisce soprattutto in “Organsa” di Mariangela Mianiti è il linguaggio, un impasto di italiano e dialetto della Bassa parmense che scolpisce i personaggi non in una materia morbida come il legno o la creta, ma nel granito o in una qualunque altra pietra dura, rendendoli indimenticabili.

Chi scrive non ama i pastiche linguistici, che trova in genere arroganti ma, come ha commentato Luisa Muraro nel corso di un incontro tenutosi presso la Libreria delle Donne di Milano, questa “è una lingua che continua a stare in equilibrio nell’italiano”, e meglio non poteva essere detto. La scrittrice conferma di averci lavorato parecchio, perché ogni frase poteva essere formulata “in cinque o sei modi diversi”, con cioè una diversa mistura di italiano e dialetto, ma “qui ho trovato la musica.”

Il risultato è qualcosa che, con un minimo di difficoltà, può essere capito anche a Napoli o a Palermo. È un esito che raggiunge chi sa scrivere davvero, come il siciliano di Silvana Grasso, comprensibile anche da noi.  Allo stesso modo per Mianiti l’idioletto non è un vezzo, ma un modo per dare credibilità e consistenza ai personaggi.

La storia raccontata è una di ordinaria durezza e ingiustizia delle nostre campagne tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Una famiglia contadina, una figlia che ha studiato da sarta, con un particolare talento e creatività nella confezione degli abiti, costretta a servire i genitori-padroni che hanno rilevato un’osteria e la obbligano a una vita che non vuole, tenendo stretti i cordoni della borsa e accentrando tutto nelle proprie mani. E poco importa che la donna sia sposata, perché il marito, a cui pure vuole bene, è costretto anche lui nella gabbia dell’ignoranza, senza i mezzi per ribellarsi né allo sfruttamento sul lavoro né a quello dei suoceri. Chi ha sensi non intorpiditi e occhi spalancati è la bambina Aurelia, dal cui punto di vista la storia viene narrata e attraverso cui avviene il riscatto dei genitori che la fanno studiare, al pari degli altri figli, perché si rendono conto che l’unica fuoriuscita dalla miseria, anche umana, è l’istruzione.

È malvagia la nonna, matriarca formidabile e implacabile, che governa la famiglia con pugno di ferro, taglia con le forbici la testa alle rane, castra galli e scuoia conigli? È malvagio il nonno parassita che tiene per sé tutto quel che c’è di meglio e lesina alla figlia? Sì, sono malvagi, ma hanno ereditato la spietatezza contadina, la concentrazione sul sé che sola poteva garantire la sopravvivenza in tempi in cui la minima pecca o cedimento significavano morte certa. Hanno ereditato nei geni un attaccamento ai beni e un’avidità che, se non era di tutti coloro che lavoravano la terra, certo ha a che fare con la fatica del tenersi in vita.

La storia raccontata è quella del passaggio da una società rurale a una industriale, che vede a poco a poco le persone dotarsi di automobile, televisione, elettrodomestici, ma anche abbattere platani e cementificare prati per costruirvi parcheggi, rotonde e tangenziali.

Romanzo importante per tutti, è imprescindibile per chi vive dalle nostre parti, che ci ritroverà, resi al centimetro, gli ambienti, le atmosfere, le abitudini, la parlata, i caratteri che hanno popolato la nostra pianura dagli anni ’50-’60 a oggi. E ancora il modo di vivere dei paesi, i perdenti, i diversi che si suicidano o finiscono per morire, la voglia di fuga il più lontano possibile, gli interni prima contadini poi piccolo-borghese, la nebbia e i fossi.  Tutt’altro che una storia gotica come, per dire, il pur bellissimo “La valle delle donne lupo” di Laura Pariani, il libro è intriso di umorismo e si sta alzati la notte per finire di leggerlo.

Francesca Avanzini

Organsa, il verri edizioni, pp. 269, euro 16