IN BOSNIA PER NON DIMENTICARE

In Bosnia per non dimenticare

 

Neanche volendo, si potrebbe andare in Bosnia-Erzegovina a fare del puro turismo. Troppo evidenti i segni e le ferite della guerra terminata nel 1995.L’interno della Bosnia è montuoso o collinoso, basse montagne o alte colline, come volete, mai tali da costituire un baluardo al pari delle Alpi o dei Pirenei, dunque facilmente valicabili da eserciti invasori. I conquistatori che restarono più a lungo e lasciarono il segno più marcato furono i Turchi, dal 1463 al 1878.Dalla corriera dove sono seduta vedo sfilare boschi, altipiani verdissimi, alture.

Perché, penso, non raccordano i sentieri, creando itinerari per camminatori o ciclisti? La Bosnia, dopo la guerra, si è molto impoverita, le industrie non decollano, l’agricoltura non è risorsa sufficiente, ambiente e foreste quasi intatte-hanno cominciato a disboscare anche qui, per vendere il legname-potrebbero costituire una forte attrazione turistica. “Non si può”, dice la guida. “I boschi e le montagne sono cosparsi di mine. I contadini vanno a funghi e saltano in aria. Ogni anno c’è una lista delle persone e degli animali uccisi in questo modo. Intorno a Sarajevo, dove esisteva una mappatura degli ordigni, si è potuto sminare e la zona adesso è sicura, in altri posti le mine non si sa dove siano.”

Oltre che di mine, la campagna è cosparsa di sottili, candide stele verticali, tombe musulmane. Sono raggruppate in piccoli cimiteri, ma anche isolate nel verde o a poca distanza dalle case. Possibile che si potesse seppellire così vicino all’abitato, non esistevano regole?

Ancora una volta la guida viene in soccorso. “Bisognava far presto e preferibilmente di notte per sfuggire ai cecchini. La gente seppelliva dove poteva, anche nel giardino di casa.”

A Srebrenica, o meglio, al Memoriale e Cimitero di Srebrenica-Potoçari, le stele sono ordinatamente disposte a formare il disegno di un fiore a sette petali.

Non ci sono i corpi di tutte le 8.372 vittime del massacro, i cui nomi sono scritti sulle lastre di pietra circolari all’ingresso, perché se ne continuano a trovare nelle campagne circostanti e ogni 11 luglio vengono aggiunti a quelli già sepolti.

A volte si ritrovano solo oggetti appartenuti ai defunti, che vengono identificati tramite DNA e aggiunti alle sepolture.

La strage fu perpetrata nel 1995 dall’esercito della Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina agli ordini di Mladić -ora condannato all’ergastolo in Svezia da un tribunale internazionale-ed è stata considerata genocidio perché aveva l’unico scopo di annientare un’enclave bosniaco musulmana o bosgnacca. Le donne e gli uomini che, dopo essere stati scacciati dalle loro case, si erano come estrema difesa rifugiati nella base dei Caschi Blu canadesi e olandesi, un’ex fabbrica di batterie navali ora adibita a museo e posta davanti all’attuale memoriale, furono brutalmente separati. Le donne insieme ai bambini fino ai 12 anni vennero caricate su autobus, deportate in territorio bosniaco e stuprate, gli uomini vennero giustiziati. Più di 50.000 donne vennero violentate nel corso della guerra e numerosissimi bambini. Srebrenica era già da tempo stata dichiarata zona protetta, ma i Caschi Blu, per svariati motivi, non fecero niente per fermare la strage. Le circostanze sono magistralmente raccontate nel film Quo vadis, Aida della regista bosniaca Jasmila Žbanić. Neanche dopo la fine della guerra i musulmani di Srebrenica sono rientrati in possesso delle loro case, adesso abitate da serbi.

Quella di Srebrenica non fu l’unica strage, ma senz’altro tra le più cruente. Ora la cittadina è inclusa nella Repubblica Srpska, una delle due federazioni in cui è diviso il territorio della Bosnia. L’altra è quella della Bosnia-Erzegovina. Il paese ha assunto questo assetto a partire dagli accordi di Dayton del 1995 che hanno sancito la fine della guerra ed è governato a rotazione da tre presidenti, rappresentanti rispettivamente dei serbi, dei croati e dei musulmani, ognuno dei quali resta in carica per otto mesi.

Quando si sfaldano gli imperi, come quelle bolle di metano che vengono in superficie nel fango di certe località, emergono i nazionalismi. I musulmani di Bosnia, fino a poco prima vicini di casa, diventano, bersaglio di un’abile propaganda, nemici da annientare, prede della fame di territorio e potere dei serbo-bosniaci e dei croato-bosniaci. Si comincia sempre allo stesso modo, col dire che gli altri-ebrei, bosgnacchi, tutsi- sono brutti, sporchi, cattivi e diversi da noi, ci portano via terra, donne e lavoro. Non vi ricordano qualcuno?

Si viene qui per non dimenticare, ma si ha l’impressione che sia poco utile. Chi viene forse già sa o si illude di sapere, forse si ritiene immune da propagande belliche. Forse bisognerebbe portarci odiatori, leoni da tastiera, tifosi di curve nord e sud, guerrafondai, affaristi cinici e altri della stessa risma, tutti caricati insieme su dei bei pullman e scaricati qui, a meditare. Chissà se servirebbe.

Ma noi. Noi. Siamo poi così sicuri di essere immuni? Dalla retorica di dittatori in pectore, da pregiudizi razziali e violenza?

Procedendo per la campagna, case sventrate, crivellate di colpi, in rovina, accanto ad altre dignitosamente nuove, tutte costruzioni basse e ben tenute venute su dopo il 1995.Anche a Sarajevo i segni della guerra sono ancora freschi. Ovunque per la città si trovano le “rose di Sarajevo”, i segni lasciati sull’asfalto dalle granate, che i cittadini hanno dipinto di rosso.

Ce n’è una proprio all’entrata della Baščaršija (pronunciato più o meno Basciarscía) in turco “mercato grande”, la zona più antica di Sarajevo, la cui strada principale vede in prospettiva minareti, torri, moschee. É ancora oggi un mercato o suk, con la via degli orefici, i tappeti appesi fuori dalle botteghe, i servizi di rame lucente per servire il caffé bosniaco, e tutta la chincaglieria scintillante made in China. Suk non è parola slava, ma è stata usata appositamente, perché essere qui è come essere nel suk di una qualunque città di cultura araba, da Marrakesh a Tunisi a Istanbul. L’Oriente, comprendendo nella definizione anche il Nord Africa, a relativamente pochi chilometri da casa. Il termine Balcani è di recente creazione, dicono gli storici, fino alla fine del 1800 ci si riferiva ad essi come a “Turchia in Europa”. Sarajevo come porta o bastione d’oriente, limine, limite o saldatura di due culture. Questo è il problema.

L’assedio di Sarajevo è durato più di mille giorni, dal 1992 al 1996. La città è in una conca, attraversata da un fiume e circondata da alture su cui stavano appostati i cecchini serbo-bosniaci (per semplificare, perché la situazione era ben più complicata di così) mentre il centro era a maggioranza musulmana. La città era priva di tutto, acqua, luce, gas, cibo. Per riscaldarsi si bruciavano i libri, i discorsi di Tito che tutti avevano in casa, o quello che c’era sottomano. Una scarpa=una zuppa, il fuoco, cioè, sviluppato dall’incendio di una scarpa era sufficiente a cucinare una zuppa. Spesso si cucinava tutti insieme, mettendo in comune scarse provviste e ambienti sicuri, e molta parte del tempo lo si passava in scantinati.

La popolazione ha resistito eroicamente cercando di tenere sempre in funzione scuole, teatri e mezzi di comunicazione. Parecchi libri sono stati scritti sull’assedio, e non è dunque il caso di dilungarsi qui. Alcune cose però vanno ricordate, per esempio la distruzione della biblioteca, che conteneva libri antichi e preziosi e che è stata simbolica, perché si mirava proprio a distruggere l’identità di un popolo. Fu ricostruita com’era e dov’era, in stile moresco-austro-ungarico, appena finita la guerra.

Qualunque guida, portandovi in giro per Sarajevo, non potrà esimersi dal mostrarvi i luoghi delle stragi più cruente e col maggior numero di vittime: la strage della coda per il pane, la strage di Markale o del mercato coperto. Si bombardavano ospedali, biblioteche, abitazioni, edifici pubblici per srazzare una popolazione, neanche fossero insetti. Vi ricorda qualcosa?

La guida vi mostrerà anche alla Sniper Alley, il viale dei cecchini, e l’hotel Holiday Inn, giallo uovo, dove alloggiavano i giornalisti stranieri durante la guerra. Vi porterà nel luogo dove è stato ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando, non esattamente il ponte, come nella vulgata, ma poco lontano.

Per il resto Sarajevo è una bella capitale europea, con i danni della guerra in gran parte riparati, larghi viali dove passeggiare, palazzi austro-ungarici, chiese ortodosse e cattoliche, sinagoghe. Anche romantica, con i suoi ponti, i suoi vecchi edifici, i suoi caffè.

Di Mostar, altra città martire, si dirà solo questo: nel ’93 venne distrutto lo Stari Most, il ponte sulla Neretva, il fiume più freddo d’Europa con i suoi 9 gradi, simbolo della città eretto dai Turchi nel 1566. Prontamente ricostruito dopo la guerra, è stato dichiarato patrimonio Unesco. La città, divisa tra bosniaci e croati, non ha mai più ritrovato l’unità. Il ponte, invece di collegare le due etnie, le divide.

Francesca Avanzini